Chiacchiera
22 Agosto - 3.399 visualizzazioni
TATUAGGI NELL'ANTICA GRECIA: UN GRAVE SIMBOLO DI VERGOGNA
Nella Grecia antica, il tatuaggio (stígmata, dal verbo stízō, "pungere"😉 non rappresentava un'espressione identitaria o ornamentale, bensì un atto di marchiatura imposto, con finalità punitive, correttive o di identificazione sociale. L'uso del tatuaggio era riservato a categorie stigmatizzate: schiavi, prigionieri, criminali e talvolta prigionieri di guerra. Le fonti letterarie antiche testimoniano chiaramente questa funzione. Plutarco, ad esempio, riporta che Mitridate fece marchiare dei greci catturati come forma di umiliazione politica, mentre Aristofane, nella commedia Le Rane, allude ai tatuaggi come segni distintivi di bassa estrazione o disonore. Erodoto riferisce persino pratiche di comunicazione cifrata tramite tatuaggi su crani rasati. Nelle città greche, i tatuaggi erano dunque imposti per rendere visibile la condizione servile o colpevole del soggetto: nei casi più documentati, venivano praticati sulla fronte o su parti esposte del corpo.
Al contrario, tra le popolazioni “barbariche” come i Traci e gli Sciti, il tatuaggio era invece connotato positivamente: Erodoto (V, 6) osserva che per i Traci il tatuaggio costituiva un segno di nobiltà, mentre l'assenza di marchi rappresentava una condizione infima. Questa dicotomia riflette una distinzione ideologica e culturale tra l'ethos greco e quello dei popoli considerati esterni alla polis. Non esistono testimonianze di uso volontario, estetico o religioso del tatuaggio in Grecia, a differenza di quanto si osserva in altre civiltà antiche. Nella concezione greca classica, la pelle doveva rimanere intatta, segno di autocontrollo, purezza e appartenenza alla civiltà cittadina. Pertanto, lo stigma non solo etichettava visivamente l'individuo, ma lo esponeva simbolicamente alla perdita della dignità pubblica e dello statuto sociale.
Nella Grecia antica, il tatuaggio (stígmata, dal verbo stízō, "pungere"😉 non rappresentava un'espressione identitaria o ornamentale, bensì un atto di marchiatura imposto, con finalità punitive, correttive o di identificazione sociale. L'uso del tatuaggio era riservato a categorie stigmatizzate: schiavi, prigionieri, criminali e talvolta prigionieri di guerra. Le fonti letterarie antiche testimoniano chiaramente questa funzione. Plutarco, ad esempio, riporta che Mitridate fece marchiare dei greci catturati come forma di umiliazione politica, mentre Aristofane, nella commedia Le Rane, allude ai tatuaggi come segni distintivi di bassa estrazione o disonore. Erodoto riferisce persino pratiche di comunicazione cifrata tramite tatuaggi su crani rasati. Nelle città greche, i tatuaggi erano dunque imposti per rendere visibile la condizione servile o colpevole del soggetto: nei casi più documentati, venivano praticati sulla fronte o su parti esposte del corpo.
Al contrario, tra le popolazioni “barbariche” come i Traci e gli Sciti, il tatuaggio era invece connotato positivamente: Erodoto (V, 6) osserva che per i Traci il tatuaggio costituiva un segno di nobiltà, mentre l'assenza di marchi rappresentava una condizione infima. Questa dicotomia riflette una distinzione ideologica e culturale tra l'ethos greco e quello dei popoli considerati esterni alla polis. Non esistono testimonianze di uso volontario, estetico o religioso del tatuaggio in Grecia, a differenza di quanto si osserva in altre civiltà antiche. Nella concezione greca classica, la pelle doveva rimanere intatta, segno di autocontrollo, purezza e appartenenza alla civiltà cittadina. Pertanto, lo stigma non solo etichettava visivamente l'individuo, ma lo esponeva simbolicamente alla perdita della dignità pubblica e dello statuto sociale.
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Fourgiampindepadell: Antica Grecia? Solo una cinquantina di anni fa in Italia il tatuaggio era il marchio di chi aveva visitato le patrie galere..... poi è diventato una moda! 😉
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22 Agosto alle ore 17:36 · Ti stimo · Rispondi