Chiacchiera
8 Luglio - 3.580 visualizzazioni
Non toccare chi ha più di 50 anni. Sul serio.
Non sono solo un'altra generazione: sono veri sopravvissuti.
Duri come pane raffermo, rapidi come la ciabatta di una nonna arrabbiata, quella che volava con precisione chirurgica.
A cinque anni capivano l'umore della madre dal rumore del coperchio sulla pentola.
A sette, avevano già le chiavi di casa e le istruzioni:
«C'è da mangiare in frigo. Scaldalo, ma non rovesciare niente.»
A nove preparavano la pastina per i fratelli.
A dieci sapevano chiudere il rubinetto dell'acqua e scappare dal cane del vicino con un secchio in testa.
Stavano fuori tutto il giorno, senza cellulare,
con un programma preciso: sbarra, campo, bicicletta, rientro a casa quando faceva buio.
Le ginocchia, coperte di croste e cicatrici, erano una mappa vivente delle loro avventure.
E sono sopravvissuti.
Le sbucciature si curavano con la saliva o con una foglia di piantaggine.
E quando si lamentavano, la risposta era:
«Se non c'è sangue, non è niente.»
Mangiavano pane e zucchero, oppure pane e olio.
Bevevano dal tubo dell'acqua del giardino un sistema immunitario che oggi farebbe scuola e se avevano allergie, nessuno ci badava.
Sanno come togliere le macchie di erba, di sugo, di biro o di ruggine,
perché “non si usciva di casa vestiti male”, neanche per andare a giocare.
E poi… hanno visto e vissuto cose che oggi sembrano preistoria:
– la radio col manopolone,
– la TV in bianco e nero,
– il giradischi con i vinili,
– il mangianastri, le cassette,
– il walkman e i CD…
e oggi ascoltano migliaia di canzoni dallo smartphone,
ma rimpiangono il suono della cassetta che frusciava e si riavvolgeva con una penna.
Con la patente appena presa attraversavano l'Italia con la 127,
senza aria condizionata, senza hotel, senza navigatore.
Solo una cartina stradale dell'ACI e un panino avvolto nella stagnola.
Eppure arrivavano sempre a destinazione.
Senza Google Translate. Con un sorriso e due parole in dialetto.
Sono l'ultima generazione cresciuta senza internet,
senza powerbank,
senza ansia da “batteria al 2%”.
Si ricordano il telefono a disco nel corridoio,
i quaderni di ricette scritte a mano,
e i compleanni segnati sul calendario della cucina.
Loro:
aggiustano tutto con lo scotch, una graffetta o una molletta,
avevano un solo canale TV (poi due), e non si annoiavano, “sfogliavano” l'elenco telefonico, non le notifiche, e una chiamata persa voleva dire solo: “Ti ho pensato.”
Sono diversi.
Hanno una specie di amianto emotivo, un sistema immunitario forgiato tra freddo, strada e poco zucchero e riflessi da ninja metropolitano.
Non stuzzicare un cinquantenne o un sessantenne.
Ha visto più cose di te, ha vissuto più in profondità.
E in tasca ha ancora una caramella alla menta rimasta lì “per ogni evenienza”.
È sopravvissuto a un'infanzia senza seggiolino, senza casco, senza crema solare.
Alla scuola senza computer.
Alla giovinezza senza social, senza filtri, senza selfie.
Non cerca risposte su Google: si fida del suo istinto.
Non sono solo un'altra generazione: sono veri sopravvissuti.
Duri come pane raffermo, rapidi come la ciabatta di una nonna arrabbiata, quella che volava con precisione chirurgica.
A cinque anni capivano l'umore della madre dal rumore del coperchio sulla pentola.
A sette, avevano già le chiavi di casa e le istruzioni:
«C'è da mangiare in frigo. Scaldalo, ma non rovesciare niente.»
A nove preparavano la pastina per i fratelli.
A dieci sapevano chiudere il rubinetto dell'acqua e scappare dal cane del vicino con un secchio in testa.
Stavano fuori tutto il giorno, senza cellulare,
con un programma preciso: sbarra, campo, bicicletta, rientro a casa quando faceva buio.
Le ginocchia, coperte di croste e cicatrici, erano una mappa vivente delle loro avventure.
E sono sopravvissuti.
Le sbucciature si curavano con la saliva o con una foglia di piantaggine.
E quando si lamentavano, la risposta era:
«Se non c'è sangue, non è niente.»
Mangiavano pane e zucchero, oppure pane e olio.
Bevevano dal tubo dell'acqua del giardino un sistema immunitario che oggi farebbe scuola e se avevano allergie, nessuno ci badava.
Sanno come togliere le macchie di erba, di sugo, di biro o di ruggine,
perché “non si usciva di casa vestiti male”, neanche per andare a giocare.
E poi… hanno visto e vissuto cose che oggi sembrano preistoria:
– la radio col manopolone,
– la TV in bianco e nero,
– il giradischi con i vinili,
– il mangianastri, le cassette,
– il walkman e i CD…
e oggi ascoltano migliaia di canzoni dallo smartphone,
ma rimpiangono il suono della cassetta che frusciava e si riavvolgeva con una penna.
Con la patente appena presa attraversavano l'Italia con la 127,
senza aria condizionata, senza hotel, senza navigatore.
Solo una cartina stradale dell'ACI e un panino avvolto nella stagnola.
Eppure arrivavano sempre a destinazione.
Senza Google Translate. Con un sorriso e due parole in dialetto.
Sono l'ultima generazione cresciuta senza internet,
senza powerbank,
senza ansia da “batteria al 2%”.
Si ricordano il telefono a disco nel corridoio,
i quaderni di ricette scritte a mano,
e i compleanni segnati sul calendario della cucina.
Loro:
aggiustano tutto con lo scotch, una graffetta o una molletta,
avevano un solo canale TV (poi due), e non si annoiavano, “sfogliavano” l'elenco telefonico, non le notifiche, e una chiamata persa voleva dire solo: “Ti ho pensato.”
Sono diversi.
Hanno una specie di amianto emotivo, un sistema immunitario forgiato tra freddo, strada e poco zucchero e riflessi da ninja metropolitano.
Non stuzzicare un cinquantenne o un sessantenne.
Ha visto più cose di te, ha vissuto più in profondità.
E in tasca ha ancora una caramella alla menta rimasta lì “per ogni evenienza”.
È sopravvissuto a un'infanzia senza seggiolino, senza casco, senza crema solare.
Alla scuola senza computer.
Alla giovinezza senza social, senza filtri, senza selfie.
Non cerca risposte su Google: si fida del suo istinto.
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Noi abbiamo passato il boom dell'eroina, noi andavamo in moto senza casco, noi siamo stati in pericolo con l'AIDS...
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