Chiacchiera
3 Luglio - 2.286 visualizzazioni
COME FUNZIONAVA ESATTAMENTE LA CROCIFISSIONE?
La croce, strumento di supplizio tra i più crudeli mai concepiti, si componeva di due pali: uno verticale e l'altro orizzontale.
Nel luogo delle crocifissioni, il palo verticale, detto stipeS, era già piantato saldamente nel terreno, pronto a sostenere la struttura della croce. Il condannato, destinato a una morte lenta e dolorosa, doveva portare sulle sue spalle il palo orizzontale, il patibulum, che sarebbe poi stato fissato sullo stipes. Da questo termine latino deriva la parola italiana "patibolo", che richiama alla mente un destino segnato di sofferenza e morte.
Il patibulum era legato saldamente alle braccia del condannato, rendendo il tragitto verso il luogo dell'esecuzione un calvario. Se il condannato cadeva, la sua faccia rischiava di colpire violentemente il suolo, aggravando ulteriormente le sue pene. Giunto al luogo del supplizio, il condannato veniva conficcato al patibulum, che veniva sollevato e infisso. Le sue braccia, talvolta inchiodate, altre volte legate al legno, venivano distese in una posa di estremo tormento.
Lo stipes era spesso dotato di una sporgenza, chiamata pegma, sulla quale il condannato sedeva a cavalcioni. Questa sporgenza, lungi dal portare sollievo, prolungava l'agonia, permettendo alla vittima di sopravvivere più a lungo, sospesa tra la vita e la morte. Le ore si trasformavano in giorni, in un supplizio interminabile.
Le cause della morte durante la crocifissione non erano univoche. Il condannato poteva morire per collasso cardiocircolatorio, aggravato dall'ipovolemia dovuta alla perdita di sangue e di liquidi. La fatica di respirare, aggravata dalla posizione forzata, portava spesso a una morte per asfissia.
Ogni respiro richiedeva uno sforzo immane: il condannato doveva spingere sulle gambe per sollevare il corpo e permettere ai polmoni di espandersi. Quando, stremato dal dolore, dal freddo o dal dissanguamento, non riusciva più a sostenersi, rimaneva appeso alle braccia, con il torace compresso, fino a soffocare.
I carnefici, esperti nel prolungare o abbreviare il tormento, sapevano come infliggere la morte più rapidamente. Quando desideravano accelerare la fine del condannato, rompevano le sue gambe con un bastone, impedendogli di sollevarsi per respirare. In questo modo, la morte per soffocamento giungeva inesorabile e rapida, ponendo fine a un'agonia altrimenti interminabile.
FONTI
- Cook, John Granger, Crucifixion in the Mediterranean World
La croce, strumento di supplizio tra i più crudeli mai concepiti, si componeva di due pali: uno verticale e l'altro orizzontale.
Nel luogo delle crocifissioni, il palo verticale, detto stipeS, era già piantato saldamente nel terreno, pronto a sostenere la struttura della croce. Il condannato, destinato a una morte lenta e dolorosa, doveva portare sulle sue spalle il palo orizzontale, il patibulum, che sarebbe poi stato fissato sullo stipes. Da questo termine latino deriva la parola italiana "patibolo", che richiama alla mente un destino segnato di sofferenza e morte.
Il patibulum era legato saldamente alle braccia del condannato, rendendo il tragitto verso il luogo dell'esecuzione un calvario. Se il condannato cadeva, la sua faccia rischiava di colpire violentemente il suolo, aggravando ulteriormente le sue pene. Giunto al luogo del supplizio, il condannato veniva conficcato al patibulum, che veniva sollevato e infisso. Le sue braccia, talvolta inchiodate, altre volte legate al legno, venivano distese in una posa di estremo tormento.
Lo stipes era spesso dotato di una sporgenza, chiamata pegma, sulla quale il condannato sedeva a cavalcioni. Questa sporgenza, lungi dal portare sollievo, prolungava l'agonia, permettendo alla vittima di sopravvivere più a lungo, sospesa tra la vita e la morte. Le ore si trasformavano in giorni, in un supplizio interminabile.
Le cause della morte durante la crocifissione non erano univoche. Il condannato poteva morire per collasso cardiocircolatorio, aggravato dall'ipovolemia dovuta alla perdita di sangue e di liquidi. La fatica di respirare, aggravata dalla posizione forzata, portava spesso a una morte per asfissia.
Ogni respiro richiedeva uno sforzo immane: il condannato doveva spingere sulle gambe per sollevare il corpo e permettere ai polmoni di espandersi. Quando, stremato dal dolore, dal freddo o dal dissanguamento, non riusciva più a sostenersi, rimaneva appeso alle braccia, con il torace compresso, fino a soffocare.
I carnefici, esperti nel prolungare o abbreviare il tormento, sapevano come infliggere la morte più rapidamente. Quando desideravano accelerare la fine del condannato, rompevano le sue gambe con un bastone, impedendogli di sollevarsi per respirare. In questo modo, la morte per soffocamento giungeva inesorabile e rapida, ponendo fine a un'agonia altrimenti interminabile.
FONTI
- Cook, John Granger, Crucifixion in the Mediterranean World
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