Vaccata
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26 Aprile 2023 - 3.311 visualizzazioni
È notte a Prypjat, cittadina al confine tra Ucraina e Bielorussia, all'epoca URSS. A tre chilometri dal centro cittadino sorge una centrale nucleare intitolata a Lenin, nota come “centrale di Chernobyl” anche se l'omonima cittadina dista una ventina di chilometri. La centrale consta di quattro reattori RBMK, in grado di generare da soli il 10% del fabbisogno di elettricità ucraino.
Il 25 aprile 1986 era stato deciso di sfruttare uno spegnimento programmato del reattore 4 per effettuare un test, a lungo pianificato: si vuole capire se, dopo lo spegnimento, l'inerzia della turbina ancora in rotazione può alimentare il sistema di raffreddamento del reattore fino all'accensione dei generatori di riserva. Per non avere esito negativo il direttore Viktor Brjuchanov decide di disabilitare le misure automatiche di sicurezza: una pessima decisione. Tutto era pronto per il test alle 14:15, ma il blackout di un'altra centrale costringe a posporre lo spegnimento del reattore 4. Solo alle 23:00 viene data l'autorizzazione a procedere, e nel frattempo il personale del turno diurno (preparato adeguatamente al compito) è stato sostituito da quello del turno notturno, impreparato. Nessuno riattiva il sistema di sicurezza.
Il test prevede che la potenza venga ridotta a 700 MW termici, prima di scollegare le turbine
. Le barre di controllo vengono inserite, ma troppo in profondità: la potenza scende all'1%, mentre i manuali impongono di rimanere sopra il 20%. Ma si decide di proseguire comunque. I tecnici non si accorgono che stanno "avvelenando" il reattore: la bassa potenza permette la produzione di grandi concentrazioni di xeno-135, un "veleno neutronico" che ostacola la reazione, ma che in caso di operazione a potenza normale viene distrutto senza problemi. Per far risalire la potenza e poter eseguire il test si rimuovono quindi le barre di controllo fino a farne rimanere soltanto una manciata, quando secondo i manuali devono rimanerne sempre almeno 30. Il reattore è pericolosamente instabile.
Quando la potenza riprende a salire, inizia la distruzione dello xeno-135, aumentando ulteriormente la potenza e quindi la temperatura. Il sistema di raffreddamento automatico però è disattivato, le barre di controllo sono alzate e le pompe si stanno spegnendo, quindi non c'è nulla che possa far scendere la temperatura. Si formano grandi quantità di vapore, che aumentano ulteriormente l'intensità della reazione (questo non accade nei reattori moderni).
L'effetto valanga è ormai inevitabile. Alle 1:23:40, dopo 36 secondi dall'inizio del test, viene attivata la procedura di arresto di emergenza. Ma il sistema ormai è già 10 volte oltre il suo limite di potenza e non riesce a tornare a parametri più bassi. Il vapore si dissocia, e l'aumento della pressione fa esplodere le tubature. L'acqua entra a contatto con il corium, provocando un'esplosione tale da scoperchiare il reattore. Divampa un incendio. Poiché il tetto del reattore è malauguratamente aperto, il fumo radioattivo si sparge nell'atmosfera.
È il più grave incidente nucleare civile della storia. Ed era perfettamente evitabile, poiché dovuto a errori di progettazione e troppe scelte sciagurate. Oggi le centrali nucleari sono progettate in modo che niente di tutto questo possa accadere nemmeno se ce ne fosse la precisa volontà. Fortunatamente, i reattori costruiti dopo questo disastro non hanno avuto incidenti gravi (l'impianto di Fukushima è antecedente a quello di Chernobyl). Tuttavia, in occasione del 37° anniversario è bene ricordarsi degli errori passati per evitare con ancora più determinazione che si ripetano.
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