Chiacchiera
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carlettonelivello 13
6 Luglio 2020 - 2.108 visualizzazioni
Musa Juwara in Italia ci è arrivato 4 anni fa.

A bordo di un barcone.
Sul quale era salito senza nemmeno saper nuotare, solo, con la consapevolezza di poter morire lì, in quel deserto blu, scomparendo sotto il pelo dell'acqua, dopo aver attraversato dal Gambia l'Africa ancora bambino.

La vita gli aveva detto che lì era nato e lì avrebbe dovuto arrancare, arrangiarsi, sopravvivere e morire. In una vita di stenti e difficoltà, ma non perché fosse colpa sua. Perché così è, così funziona e così vogliono quelli nati nell'angolino fortunato del mondo.

Musa però non ci stava. Pensava che nella sua unica vita avrebbe cercato di meritarsi quello che spetta a ogni essere umano. E un giorno partì.

Su quel barcone Musa avrebbe potuto morirci.
Ma così non è andata grazie a una ONG, una di quelle organizzazioni che salvano esseri umani in mare, ma che politici senza scrupoli descrivono come gruppi criminali così da potersi lavare la faccia e la coscienza davanti ai figli e allo specchio.

Tratto in salvo e portato in Italia quel bambino di 14 anni è stato messo in un centro di accoglienza. Che quegli stessi politici descrivono come grumi di banditi e clandestini che hanno come perverso obiettivo spacciare, uccidere, stuprare e rubare.

Tirando due calci a un pallone qualcuno nota il talento di quel ragazzino.
Lo porta in squadra con sé. Diventa il suo allenatore. E alla fine il suo papà adottivo.

Musa migliora a vista d'occhio, altre squadre si interessano a lui.
E lui gioca per loro, segna e vince.

Poi ecco che quel ragazzo arrivato su un barcone finisce in Seria A, nel Bologna, alla corte di sua Maestà Sinisa Mihajlovic.

L'esordio in serie A.
E ieri, nel tempio del calcio, al Meazza, quel tiro in porta, la rete che si gonfia e sul tabellone il suo nome.

Gol di Musa Juwara, il ragazzino che doveva crepare in Gambia e in mare, e che ora gioca e segna in serie A.
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Vaccata