Chiacchiera
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Chetiendetroyeslivello 12
11 Luglio 2021 - 3.166 visualizzazioni
Due righe tanto pe dì.

Ognuno scrive quello che vòle e come lo vòle: massime, sfonnoni, proverbi, poesiole, pensieri, preghiere e bestemmie (anzi quelle No, sennò l'amministratore s'arabbia, e fa bene). Insomma, provando a rispettà la grammatica, la scrittura è libertà.
Ma se si decide di scrivere secondo un canone, allora cambia tutto. E qual è la forma, diciamo, canonica della poesia romanesca? Quella con cui tutti i più grandi si sono misurati?
Il sonetto.
E qui veniamo al tema di queste poche righe.
Il sonetto nun è libertà manco pe gnente. Il sonetto è rigore e disciplina.
Il sonetto è lavoro di cesello. Chi sceglie di scrivere un sonetto sappia che si mette in mezzo a una specie de guaio.
Eh sì. Perché il sonetto vuole, chiede, anzi pretende dalla mano che lo scrive. Pretende.
Il sonetto ti dice: puoi scrivere quello che vuoi... ma non come lo vuoi: le regole le detta lui, e non transige.
Nel sonetto il numero dei versi non è libero, e così non sono libere le rime, né, cosa più importante di tutte, il sonetto tollera il venire meno di quel gioiello che fa diventare musica le parole: quel gioiello che si chiama endecasillabo.

NEL MEZZO DEL CAMMIN DI NOSTRA VITA
MI RITROVAI PER UNA SELVA OSCURA

Ciavete presente? Si lo so, questo non è un sonetto ma sono forse gli endecasillabi più famosi della storia della letteratura mondiale.

Sua maestà l'endecasillabo.

Di norma undici sillabe, ma possono essere anche 10 (es: M'ha detto “scappo” e non l'ho visto più) o 12 (es: Co' quer vestito a code pare un principe) o 13 (mo nun me viè co 13 ma se semo capiti), a patto che l'ultimo accento cada sulla decima! Tassativo!
E qua nun ce sò deroghe. Nun ce trattativa, Nun ce “Vabbè dai che te frega”. NO!
Sua maestà l'endecasillabo regna da magnifico despota sul sonetto, e bisogna inchinarsi. Inchinarsi e basta.
Guai a venir meno a questo rispetto. Il risultato sembra un cencio, ‘na sedia co ‘na zampa corta, ‘na pizza americana, ‘na cosa sciatta che te guarda a te che l'hai scritto e te dice: “Mbè? Ciarisemo? M'hai rifatto alla sanfasò, come fai sempre. E invece a me nun me devi fa alla sanfasò, e manco l'artre cose devi fa alla sanfasò! A mme me devi rispettà, così come devi rispetta te stesso prima de parlà, prima de scrive, prima de fà un lavoro qualunque, perché solo se rispetti pe primo te stesso farai un lavoro degno de rispetto!”

Ma se invece lo scrivi, e lo riscrivi, e correggi, e tajji e cuci con amore, e je dai quello che je spetta, alla fine te lo leggi tra te e te, e è come sentì un profumo de vinello, è come er ponentino a Maggio, e se sei stato bravo, te rende tutto e più di quello che gli hai dato. Perché il sonetto è tiranno, ma più ancora è generoso.

Quindi cari fanelli de sta Roma bella, pensatece, e pensatece bene prima de sfidà er sonetto, perché er sonetto nun fà prigionieri.

Santiago Duermevela. Facebook
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